Personalmente sono da sempre convinto che nel sentir recitare una poesia vi
è una grande differenza sul piano delle sensazioni che un uditore prova
allorquando la recitazione avviene leggendo il testo oppure la stessa si svolge
a memoria. Nel primo caso mi sembra che l’impegno di colui che sta declamando
venga in buona parte deviato a favore della presenza di un testo scritto, la
cui visione e il rispetto richiedono una loro attenzione particolare, supportata
più dalla tecnica che dalla memoria. In sintesi: vi è più
tecnicismo che partecipazione, più semplice recitazione che condivisione.
Nella declamazione a memoria (ovviamente svolta con perizia e passione) mi sembra
di rivivere, assieme alla voce recitante, i momenti creativi che l’autore
ha attraversato, le pulsioni che lo hanno spinto a esternare in versi quello
che il mondo, il creato gli stava suggerendo, leggendo e sentendo lui, persona
privilegiata, quello che una qualsiasi altra persona ignora, pur essendone circondata.
Questa è la dote di cui è fornito l’Artista, sia che si
parli di poesia, di musica, di pittura e così via: saper leggere, interpretare
ed esternare tutto quello di cui il creato si circonda e di cui ti parla, per
offrirlo a chi, pur avendo occhi, orecchie ed intelletto, rimane, non per sua
colpa, inerte.
Anche venerdì 28 marzo, ascoltando l’amico Domenico Giglio recitare
a memoria un Carducci dell’ultimo periodo (ne scriverò ancora più
avanti), ho rivissuto le sensazioni già provate in precedenza, anche
davanti allo schermo della televisione, e mi son sentito estremamente grato
all’Autore (e al suo occasionale interprete) per avermi reso partecipe,
nella forma che gli era congeniale, di un momento di altissima emozione.
La lirica declamata, “Jaufré Rudel”, sta a rappresentare,
è vero, con i suoi ottantotto versi colmi di doloroso amore, la vicenda
di Melisenda, contessa di Tripoli, e del suo amato Rudello, principe di Blaia.
Ma si tratta, in verità, del riflesso di un amore impossibile e platonico
verso la regina Margherita. La composizione è inserita nella raccolta
“Rime e Ritmi”, assieme a molte altre - circa una trentina - , che
si chiude con tre profetici versi “ Fior tricolore - Tramontano le stelle
in mezzo al mare - E si spengono i canti entro il mio cor”. Profetici,
perché rappresentano il canto del cigno del Poeta.
Il diciannovesimo secolo sta per finire e la possente figura poetica del Carducci
si staglia ormai indiscussa sull’orizzonte della letteratura italiana
e non solo: di lì a poco, nel 1906, gli verrà attribuito il Nobel
per la letteratura, un anno prima della sua morte. Comunque non si può
sottacere che quello che poteva apparire un indulgere alla rievocazione meramente
erudita, venne stigmatizzato da alcuni critici come “poesia da professore”.
Soggetto a mutamenti improvvisi e facile agli scoppi di ira, eccessivamente
esigente e talvolta aspro, ma sempre amato e rispettato dai suoi discepoli dell’Università
di Bologna, aveva vissuto la sua vita intensamente e talvolta drammaticamente.
Basti ricordare che nel 1860, traslocando di casa, si raccomandava di portare
la “roba” in quantità tale da non occupare più di
un barroccio. Le donne lo hanno sempre visto protagonista. Prima e dopo il suo
matrimonio con Elvira Menicucci, a parte le avventure goliardiche, personaggi
come Emilia Orabona e Carolina Cristofori Piva hanno esercitato, in specie la
seconda, una influenza di non poco conto sulla vita artistica del Carducci.
Anche sul piano politico i suoi atteggiamenti si mostrarono sempre decisamente
vissuti, anche quando furono oggetto di ripensamento. E se nel 1860 aveva aderito
alla formula garibaldina “Italia e Vittorio Emanuele”, tuttavia
restava mazziniano convinto, anticlericale e massone, lettore appassionato di
Proudhn, e giunse ad affermare che l’inno “A Satana” non era
tanto una professione di paganesimo, ma di razionalismo e di ateismo. Più
tardi, riferendosi a questi anni, giunse alla conclusione che si trattava di
una conquista intellettuale e programma di vita, e che cioè “la
moralità è da trasferirsi dalla chiesa alla città, dal
cielo alla coscienza umana”. Questi suoi atteggiamenti gli procurarono
nel 1868 una sospensione di due mesi dall’insegnamento e dallo stipendio.
Ma dopo il 1870, quella crisi che in forma latente era sempre esistita nel contrasto
tra vita pubblica e ideali civili da una parte e dall’altra una esigenza
di vita individuale e felicità personale venne a maturazione. E non furono
pochi fra i critici che vollero individuare nell’amata Carolina Cristofori
Piva, donna intelligente ed istruita, la persona che riuscì ad esercitare
verso il Poeta un’azione rinnovatrice ed artisticamente educatrice. Certamente
a questa conversione artistica e politica non furono estranei avvenimenti luttuosi
che colpirono il Carducci nel 1870, quali la morte della madre e del figlio
Dante. Comunque però vedremo il poeta protestatario e giacobino trasformarsi
in poeta girondino e poi apertamente e francamente in poeta ufficiale della
monarchia o, come egli credeva, dell’Italia. E quando, declinando il diciannovesimo
secolo, il Carducci divenne fedele interprete delle tendenze e delle passioni
dell’Italia che usciva dal Risorgimento e chiudeva degnamente la grande
stagione lirica aperta dal Parini, dall’Alfieri e dal Foscolo affidando
alle “Odi Barbare” l’esaltazione di grandi soggetti storico-classici,
non fu difficile vedere nell’ormai stanco poeta il “Vate della Terza
Italia”.
Una visione parziale ma predominante del Poeta ce lo mostra di temperamento
vigoroso e sanguigno, anelante a forme di vita schiette e rudi, che si sposano,
anche queste, con i sogni fascinosi di una bellezza ormai perduta: il Classicismo
con gli splendori di Grecia e Roma, rinnovati dal Rinascimento e auspici, come
detto prima, il Parini, l’Alfieri e il Foscolo, nel clima delle nuove
idee di libertà e di giustizia. Ma le successive esperienze erudite,
tra le quali forse è da annoverare la lettura di Baudelaire, e la luttuose
vicende familiari aprìrono la sua vita a nuovi palpiti di amare tristezze,
di arcane gioie, inclinando a una malinconia sempre più intima e contemplativa
che lo spinse a scrivere, nel novembre del 1878 “Di quando in quando bisogna
concedermi questi ritorni alla contemplazione serena e quasi idolatra delle
pure forme estetiche….bisogna concedermi ch’io mi riposi in questi
lavori di cesello….”.
Non possiamo parlare di decadentismo, perché lo impediva l’istinto
classico e la vigoria del suo temperameto, anche se questa forma di espressione
già serpeggiava nel mondo letterario dell’epoca. Tuttavia, nella
mia pochezza in fatto di cultura e di giudizio critico, personalmente ritengo
più vicino a me il Carducci morbido e romantico quale ho potuto gustare,
assieme a molti altri fortunati amici, venerdì 28 marzo u.s., quando
ho sentito il bravissimo Domenico Giglio recitare a memoria la ballata romantica
“Jaufré Rudel”, seguita quasi in apnea e in religioso silenzio
e salutata con un sentito e direi quasi liberatorio applauso, che stava a significare
con quale livello di partecipazione la romanza era stata seguita e come l’interprete
era riuscito a catturare l’attenzione e l’animo dell’uditorio.
(Enzo Maggi)